La scintilla e la fiamma

All’interno di una visione messianica–utopica, quale è quella dell’attuale repubblica iraniana degli Ayatollah, diventa difficile districarsi all’interno di un contesto sociale, fragile e contraddittorio, in cui le tradizioni autentiche del popolo si intrecciano con quelle presunte di stampo politico religioso per assurgere a strumento di violenza di regime.

Il contesto politico in Iran, seguito all’istituzione della Repubblica islamica degli Ayatollah nel 1979 con la conseguente detronizzazione della famiglia Pahlavi, si fonda sul pensiero filosofico imamita che vede in ogni comportamento umano, definito come realtà oggettiva, un aspetto interiore ed uno esteriore. Due aspetti con i quali ci si relaziona e ci si misura attraverso il percepito. Il velo (hijab), strumento della scintilla, viene visto infatti come mezzo di separazione tra i due ambiti della vita sociale: quello pubblico e quello privato.

Il problema dell’Iran infatti è di non saper distinguere la spontaneità dell’adesione all’uso del velo dalla necessità di giustificare, anche con la forza dell’imposizione, il suo utilizzo come necessità di comportamento che ciascuno deve avere nei confronti della comunità. Quindi non qualcosa di individuale ma di collettivo.

Partendo da questo concetto che si viene a sviluppare quel rapporto difficile, contrastato, contraddittorio e molto spesso violento verso cui si intreccia il legame, difficile, equivoco ed illogico, tra politica e religione. Ed è proprio questo rapporto che ha provocato, con il caso di Mahsa Amini, la scintilla della rivoluzione che sta infiammando le strade e le piazze dell’Iran.

Il caso di Mahsa Amini, la ragazza 22enne curda iraniana arrestata dalla polizia morale per un ciuffo di capelli che le usciva dallo hijah, il velo imposto dal regime islamico iraniano, e morta lo scorso 16 settembre 2022, sicuramente per le violenze subite durante la detenzione, costituisce il pretesto o meglio la scintilla che ha generato il movimento di protesta contro il potere degli Ayatollah.

Sono infatti le donne iraniane, oppresse e discriminate dal regime degli Ayatollah, che al grido “Donna, vita, libertà” si sono ribellate alle intransigenze di un potere che è diventato non più accetto sia nell’idea intellettuale che nelle forme di espressioni e di convivenza civile per l’ottenimento di quei diritti che sono alla base della libertà e della dignità dell’uomo.

Ed è questa ribellione che diventa occasione per richiedere più giustizia e più diritti ma anche rigetto del terrore che lo stato esercita sulla popolazione attraverso quei corpi militari come la “polizia morale” (la polizia religiosa che vigila sul rispetto della moralità pubblica) ed il “Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica” (pasdaran) che sopprimono la dignità delle persone e la giustizia sociale.

Quella che inizialmente è stata la lotta contro l’oppressione delle donne da alcune settimane è diventata il mantra delle diverse sofferenze del popolo iraniano in cui si racchiudono le problematiche della corruzione pubblica, del disagio economico della popolazione, delle disparità sociali e del fondamentalismo religioso oltre alla mancanza di libertà e dei diritti dell’uomo.

Ora è il popolo iraniano nella sua interezza che si trova a scendere in piazza, in luoghi e città diverse, per opporsi non solo all’uso del velo ma soprattutto per abbattere il regime degli Ayatollah.

Shirin Ebadi, prima donna iraniana magistrato, a cui nel 2003 è stato assegnato il Nobel per la Pace, sostiene:

“Se i diritti umani non sono sanciti dalla legge o non sono attuati dagli Stati, le persone non avranno altra scelta se non quella di “RIBELLARSI CONTRO LA TIRANNIA E L’OPPRESSIONE”, come si riflette nel preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”.

Significativi sono stati gli slogan e le scritte che, in occasione della visita del presidente Ebrahim Raisi all’università Al-Zahra, unica università tutta al femminile del Paese, sono stati esposti sui muri e gridati a viva voce dai singoli manifestanti in occasione dell’apertura dell’anno accademico: “Il Presidente è all’università, mentre gli studenti sono in galera”, “non vogliamo un assassino come ospite”.

Ma altri slogan come “Haider, Haider, è il tuo slogan; commettere il crimine è tuo onore” o l’altro “Hossein, Hossein è il tuo slogan; uccidere le persone è il tuo compito”, o l’altro  “Gli studenti incarcerati devono essere liberati”, o “La libertà è un nostro diritto, Sharif è il nostro nome in codice”, o “L’Iran è diventato un fronte di guerra ; sei un nemico o un connazionale?”, o “Morte ai mullah!” gridati dagli studenti nelle varie università di Teheran  o in altre città come Zanjan, Mashhad, Shiraz, Qazvin, Daghan e Keermanshah sono emblematiche di uno stato d’animo di piena sofferenza e di opposizione al regime.

 

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